Secondo Paul Watzlawick “Non si può non comunicare”. La comunicazione non è solo l’utilizzo di un codice per la trasmissione di un messaggio tra un emittente e un ricevente; la comunicazione è un comunicare all’esterno ciò che avviene dentro di sè. Alcuni studiosi molto noti nel panorama internazionale hanno passato anni a studiare che cosa comporta il come comunicare. Noi comunichiamo quotidianamente non solo con le parole, ma anche attraverso il corpo. In questo ultimo caso parliamo di Comunicazione Non verbale. Nello specifico, dagli studi presenti in letteratura, gli aspetti principali della comunicazione NON VERBALE sono:
In sintesi gli studi sono concordi nell’affermare che una comunicazione in cui i messaggi non verbali contraddicono quelli verbali non è convincente, e in tal caso tra le due prevale la NON VERBALE, che è molto potente. Ma quando possiamo dire che la comunicazione diventa efficace?
La comunicazione diventa efficace quando è coerente sia sul piano verbale che sul piano non verbale.
Molto spesso, senza volerlo, vengono commessi degli errori che peggiorano la comunicazione efficace con l’altro. Nel contesto scolastico o a casa, ad esempio, è inevitabile che i bambini/ragazzi portino le loro situazioni problematiche che potrebbero interferire con il processo di apprendimento fino a renderlo, talvolta, molto difficile. Vissuti di inadeguatezza, bassa autostima, di non accettazione o crisi emotive possono compromettere gravemente le capacità di assolvere agli impegni richiesti.
Quando una persona ha un problema ci viene spontaneo “parlare” con lei, e in alcuni casi, proprio parlandole, possiamo incorrere in alcuni “errori” della comunicazione, esprimendo ulteriori difetti, o mancanze da questa commesse.
Gli errori della comunicazione portano la persona a chiudersi ancora di più in se stessa, a sentirsi incompresa, peggiorando ulteriormente l’immagine di sé e la relazione con l’altro.
Si usa troppo spesso il “linguaggio dell’inaccettazione“, definito da Thomas Gordon, celebre psicologo umanista, anche “linguaggio del rifiuto”, che si contrappone alla comunicazione efficace, e che può essere classificato in dodici barriere.
“Bisogna che tu …”; “Tu devi …”; “Tu farai …”; es. : «Smetti di agitarti e porta a termine ciò che ti è stato assegnato». Questi messaggi possono produrre nella persona che li riceve timore o resistenza attiva. Invitano inoltre a verificare l’autorità di chi le usa. Sollecitano comportamenti ribelli, ritorsione, rappresaglia in chi li subisce.
“E’ meglio per te …, altrimenti …”;“Se non farai così …”; es.: «Sarà meglio che ti ci metta d’impegno se vuoi avere un buon voto in questa materia». Le conseguenze in caso di disubbidienza sono esplicite. Possono produrre paura e sottomissione. Invitano e verificare le conseguenze della minaccia. Fanno capire che si ha poco rispetto per le proprie esigenze. Suscitano nella persona che li riceve risentimento, rabbia, ribellione; evocano sentimenti di ostilità.
“Tu dovresti …”; “Non dovresti …”; “Sarebbe opportuno …”; “Sta al tuo senso di responsabilità di …”. Es.: «Sai che è tuo dovere studiare quando vieni a scuola. Dovresti lasciare i tuoi problemi personali a casa. » costringono la persona a sottostare al potere dell’autorità. Creano un obbligo imposto o dei sensi di colpa. Possono portare la persona a radicarsi nelle sue posizioni, resistendo e difendendo i propri atteggiamenti ancor più strenuamente. Comunicano una mancanza di fiducia nel senso di responsabilità della persona.
“Perché tu non …?”; “Quello che farei io al posto tuo è …”; “Consentimi di darti un suggerimento …”; es.: «La miglior cosa da fare è calcolare meglio i tempi. Dopodiché sarai in grado di finire il tuo lavoro » Possono implicare che un bambino/ragazzo non sia in grado di risolvere i suoi problemi. Impediscono di riflettere lui stesso sul suo problema, di considerare soluzioni alternative e di sperimentarle realmente. Possono provocare dipendenza, o al contrario resistenza.
“Ecco perché tu sbagli …”; “In realtà le cose stanno così …”; “Sì, però,…”; es.: «Guardiamo in faccia alla realtà. Dovresti renderti conto che sono rimasti soltanto trentaquattro giorni di scuola per completare l’anno scolastico e migliorare la tua situazione personale.» Sollecitano posizioni difensive e contro-argomentazioni. Spesso portano il bambino/ragazzo a tirarsi indietro e a smettere di ascoltare l’adulto. Possono far sì che si senta inferiore o inadeguato.
“Tu non pensi come una persona matura …”. Es.: «O sei un pigro o sei un perditempo». Insinuano una valutazione di incompetenza, inferiorità, stupidità, povertà di giudizio. Interrompono la comunicazione del bambino/ragazzo che teme un giudizio negativo o un rimprovero, e lo portano a nascondere i propri sentimenti. Spesso accettano il giudizio come veritiero (“Io sono sbagliato”) oppure reagiscono (“Tu stesso non sei così maturo come credi”). Rispondono con la difesa e la rabbia a questi messaggi, perché devono proteggere l’immagine che hanno di sé.
“Scansafatiche!”; “Piagnone!”; “Sei proprio un furbacchione …”; es.: «Ti stai comportando come un bambino dell’asilo, non come qualcuno che sta per andare alla scuola media». Possono far sentire il bambino/ragazzo svalutato, non amato, possono avere effetti devastanti sull’immagine di sé. Tali aspetti della valutazione negativa e della critica provocano spesso rappresaglie verbali.
“Sai bene perché …”; “Tu sei semplicemente stanco …”; “Tu in realtà non vuoi dire questo …”; “Ciò che non va con te è …”, es.: «Stai proprio cercando di non fare quello che ti è stato assegnato». Tali messaggi indicano che l’adulto ha inquadrato il ragazzo. Possono essere percepiti come minacciosi e frustranti. Il bambino/ragazzo può sentirsi contemporaneamente scoperto e non compreso; denudato se l’analisi dell’adulto è corretta. Si sente invece accusato ingiustamente e si arrabbia quando l’analisi è sbagliata.
“Bene, io penso che tu stia facendo un ottimo lavoro …”; “Hai proprio ragione: questo adulto sembra terribile.”; es.: «Sei davvero un ragazzo capace. Sono sicuro che in un modo o nell’altro riuscirai a finire il compito che ti è stato assegnato.» Indicano che l’adulto ha una alta aspettativa sul bambino/ragazzo. Tali messaggi possono apparire come tentativi manipolatori, orientati a incoraggiare i comportamenti desiderati. Possono causare ansietà o disappunto quando la percezione che il bambino/ragazzo ha di se stesso non coincide con gli apprezzamenti dell’adulto. Chi è abituato a ricevere frequenti apprezzamenti possono diventarne dipendenti o addirittura pretenderli.
“Non aver paura …”; “Vedrai, ti andrà meglio …”; “Su, fatti coraggio …”; es.: «Non sei l’unico che ha provato queste cose. Mi sono sentito nello stesso modo quando ho dovuto affrontare …». Portano il bambino/ragazzo a sentirsi incompreso. Suscitano forti sentimenti di ostilità (“E’ facile per te dire questo …”) perché la rassicurazione implica che la persona in crisi stia esagerando. Spesso si coglie il messaggio dell’adulto come “Non mi piace che tu stia male”. Si rassicura e si consola perché non si riuscirebbe altrimenti ad affrontare i forti sentimenti negativi che si provano quando si è turbati.
“Perché …?”; “Chi …?”; “Ma cosa hai fatto?”; “Come?”; es.: «Credi che il compito che ti è stato assegnato sia troppo difficile? Quanto tempo ci hai dedicato? Perché hai aspettato così tanto a chiedere aiuto?”. Il bambino/ragazzo si sente impegnato a rispondere alle domande indagatorie dell’adulto, e questo finisce spesso per renderlo ansioso e fargli perdere di vista il suo problema. L’adulto, più che focalizzarsi sul problema del bambino/ragazzo, si concentra sulle proprie ansie e bisogni indagativi.
“Parliamo piuttosto di cose piacevoli, …”; “Perché non provi invece ad andartene in giro per il mondo?”; “Adesso non è il momento …”; “Torniamo di nuovo alla nostra lezione”; es.: «Sembra che qualcuno si sia alzato col piede sbagliato questa mattina …». L’adulto suggerisce che conviene evitare le difficoltà della vita piuttosto che affrontarle. Ne può conseguire che i problemi siano considerati di scarsa importanza, o addirittura privi di valore. Minimizzando il problema, l’adulto scoraggia il bambino/ragazzo ad aprirsi quando si trova in difficoltà.
Questi messaggi vanno sempre letti nel contesto della dinamica relazionale educativa. Gli errori di comunicazione sono tali quando il problema appartiene al bambino/ragazzo. Gordon definisce tali messaggi con il nome di “messaggi–Tu”, per indicare come l’adulto insista sull’uso di tale pronome: “Tu sei così …” “Tu non l’hai fatto …” “Tu dovresti comportarti diversamente …” con il risultato che il bambino/ragazzo non si sente accolto, ma disconfermato. In caso contrario, cioè se la relazione è senza problemi, consigliare, ricorrere ad argomentazioni logiche, scherzare, ecc. non reca alcun danno alla relazione. Una alternativa all’uso del “Messaggio Tu” durante dispute e conflitti è l’uso del “Messaggio IO“.
In questo video ne vediamo una dimostrazione pratica.
Se vogliamo conoscere un bambino o ragazzo non occorre fargli tante domande, possiamo osservare ciò che fa, come si muove, come interagisce nell’ambiente e esercitarci ad imparare a leggere i messaggi che ci sta mandando per comprendere il suo mondo. I bambini non comunicano solo ciò che vedono, comunicano soprattutto ciò che sentono. Nei comportamenti e reazioni dei bambini possiamo leggere i loro desideri, le loro paure, le loro emozioni, le loro realtà. I bambini più in difficoltà manifestano il disagio con comportamenti che noi adulti a volte non tolleriamo, o tolleriamo solo a metà. Imparare a dare valore a questi messaggi consente di ricavare preziose informazioni su cosa fare per aiutarli.
Così come è affascinante e stimolante scoprire nuovi mondi a noi sconosciuti, così è rilevante scoprire cosa si nasconde dietro i cosiddetti “comportamenti problema”. A tutti coloro che vogliono comprendere i bambini, ricordiamo che ciascuno di loro è unico e irripetibile. Non esistono formule universali valide per tutti, ma criteri condivisi che necessitano di riflessioni attente e calibrate sulla singolare situazione che abbiamo di fronte. Per fare questo occorrerà mettere temporaneamente da parte le nostre percezioni della realtà, e il nostro modo abituale di attribuire un significato agli eventi e situazioni. Abbandoniamo l’idea di voler confermare i nostri dubbi sulla probabile “difficoltà” del bambino che stiamo osservando.
Prendiamoci del tempo. Ascoltiamo. Riflettiamo. E poi comunichiamo in modo più efficace.
Se non sappiamo cosa fare o cosa dire in una situazione problematica, non improvvisiamoci da soli “a fare” o a “dire”. A volte esiste il rischio che la comunicazione finisca per comunicare solo a se stessa, perdendo di vista il fatto che comprendersi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione. La cosa più difficile è mettere apertamente in gioco la nostra soggettività e decidere di dialogare comunicando le nostre emozioni e i nostri pensieri, in modo autentico e aperto all’altro. E’ proprio quando la comunicazione si trasforma in condivisione del nostro mondo interno che siamo dichiaratamente pronti ad affrontare la situazione-problema che abbiamo di fronte e a chiedere un concreto parere o aiuto all’altro.
Prima di “saper parlare” è necessario “saper ascoltare”.
L’ascolto attivo è uno degli strumenti più potenti della comunicazione efficace poiché, anche solo ascoltando una persona la si può aiutare, se è in difficoltà. Il docente o il genitore che sa usare il metodo dell’ascolto attivo può portare il bambino/ragazzo a liberarsi da ciò che lo opprime parlandone, facendogli comprendere che lo accetta con tutti i suoi problemi. L’ascolto, quello vero, può assumere due forme, l’ascolto passivo e l’ascolto attivo. Esprime il linguaggio dell’accettazione e dunque di una comunicazione efficace con l’altro. Ma come possiamo mettere in pratica l’ascolto attivo? Questo si articola in quattro passi fondamentali:
Un importante elemento che permea il rapporto educativo e una buona comunicazione efficace tra l’adulto e il bambino/ragazzo, è la serietà educativa. Educare vuol dire, come scriverebbe Saint Exupery nella straordinaria opera pedagogica che è il “Piccolo Principe”, addomesticare un’altra persona. A sua volta ‘addomesticare‘ vuol dire anche ‘creare dei legami’. Chi crea dei legami diventa per sempre responsabile nei confronti dell’altro. L’educatore deve pertanto farsi carico delle sue azioni educative, sentendosi responsabile delle scelte compiute e della qualità dei suoi legami. Quando le scelte attuate e i mezzi usati, contraddicono i fini che si vogliono raggiungere, diventa necessario, cambiare strategia o “chiedere aiuto”.
La richiesta di aiuto nasce in tutti noi dalla scoperta di un limite. Per educare, occorre anche saper riconoscere un limite e desiderare di superarlo. E’ in questo che sta il nostro impegno, la nostra coerenza, coscienziosità e serietà educativa.
Nella vita il sogno inizia con un adulto che crede in te, che ti spinge e conduce al successivo piano, che attraverso la semplificazione si rende progressivamente superfluo, che ti indica dove guardare, ma non ti dice cosa vedere. E’ quell’adulto che ti fa capire che ci saranno sempre pietre lungo la strada davanti a te, e ti sprona ad essere sempre pieno di nuove strategie e idee per superarle. Il cammino continua con un adulto che usa le parole in modo costruttivo, parole di incoraggiamento, che hanno energia e potenza nella loro capacità di aiutare, incentivare, elevarti ad esprimere appieno il tuo potenziale.